Il fenomeno delle criptovalute ha suscitato reazioni di diversa natura. Da un lato i recenti crack che hanno caratterizzato questo mondo hanno portato ad interrogarsi sulla bontà della tecnologia che ne è alla base, ed hanno condotto taluno a negarne in radice ogni utilità sociale in quanto usate nell’economia sommersa. Da un altro lato, il legislatore italiano ha sentito il bisogno di occuparsene nella recente legge di bilancio. Segno che il tema, comunque la si pensi, merita quantomeno di essere conosciuto. Il video di Carlo Cicala, giurista ed avvocato cassazionista, partner dello Studio Cicala, Riccioni & Partners, esamina il Bitcoin e le altre crypto-valute dal punto di vista giuridico, spiegando come il diritto italiano “vede” quelle che oggi la legge ora definisce “cripto-attività”.
La definizione normativa di criptoattività
La legge di bilancio 2023 inquadra le criptovalute nella nuova categoria delle cripto-attività, che sono definite, ai fini fiscali, come “una rappresentazione digitale di valore o di diritti che possono essere trasferiti e memorizzati elettronicamente, utilizzando la tecnologia di registro distribuito o una tecnologia analoga”. Per semplicità, d’ora in poi si parlerà di bitcoin, la prima criptovaluta (anche in ordine di tempo), nella consapevolezza che il medesimo discorso potrà essere riferito, con gli opportuni adattamenti, anche alle altre.
Il registro distribuito e la funzione originaria di bitcoin
La nozione di registro distribuito, usata dalla legge, porta l’attenzione alla funzione originaria di bitcoin, così come definita nel documento pubblico (white paper) che ne ha definito lo scopo e l’infrastruttura tecnologica. Lo scopo è quello di consentire pagamenti on line senza la necessaria mediazione di una istituzione finanziaria, e la tecnologia prescelta per realizzare questo scopo è quella del registro distribuito. La finalità speculativa, di cui oggi molto si parla, non rientra quindi nelle caratteristiche originarie bitcoin, anche se contribuisce a caratterizzarlo ed a richiamare l’attenzione sul fenomeno.
Dal registro distribuito alla blockchain
In parole semplici, la tecnica prescelta per eliminare l’intermediazione nei pagamenti è quella di annotarli in un registro che, per evitare alterazioni, non è custodito da un ente centrale, bensì da un numero sufficientemente grande di nodi (ossia computer tra loro collegati). Il che fa in modo che non sia possibile modificarlo al di fuori delle regole fissate per il suo funzionamento. In altre parole, il fatto che il registro sia distribuito, ossia che ne siano custodite numerose versioni, garantisce, da un lato, che il numero di bitcoin in circolazione sia definito, ossia pari ad una quantità certa (destinata ad aumentare, secondo regole precise, nel corso del tempo), e dall’altro, che nessuno possa trasferire più bitcoin di quanti ne risultino nella propria titolarità. Si tiene traccia dei pagamenti (intesi come variazioni di titolarità) aggiungendo un nuovo registro a quello precedente ad intervalli di tempo predefiniti. Ogni nuova versione del registro (detta “blocco”), contiene quindi i nuovi trasferimenti rispetto a quella precedente, a cui è concatenata, in modo da formare una “catena di blocchi” che costituisce, per l’appunto, la blockchain.
La criptovaluta come rappresentazione digitale di valore
La legge richiede altresì che la cripto-attività, per definirsi tale, costituisca una rappresentazione digitale di valore. Occorre dire che per “valore” non si intende nulla di simile al valore delle valute tradizionali emesse dagli Stati, come l’euro o il dollaro. Queste, infatti, si caratterizzano per avere “corso legale”, ossia per essere obbligatoriamente accettate come mezzo di pagamento (lo stabilisce l’art. 1277 del nostro Codice civile: “le obbligazioni pecuniarie si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento”). Le criptovalute (salvo per ora rare eccezioni) non hanno “corso legale”” e quindi possono essere anche rifiutate come mezzo di pagamento. Da ciò deriva che il loro valore, ad esempio, quello di bitcoin, discende soltanto dall’incontro di domanda e offerta, tenuto conto del fatto che il numero di bitcoin in circolazione in un dato momento (oggi ed in futuro) è definito e prevedibile.
Possiamo dire, quindi, che la parola criptovaluta, nella parte in cui fa riferimento alla “valuta” tradizionale, può essere fuorviante, ed è molto più appropriata la nozione di cripto-attività usata dal legislatore tributario.
La nozione di criptovaluta da punto di vista fiscale e da quello civilistico
Così come accade per molti fenomeni dell’economia, anche per le criptovalute l’ordinamento giuridico non assume una posizione univoca, ma il suo inquadramento dipende dal settore di riferimento. Se consideriamo il settore fiscale, la criptovaluta in quanto cripto-attività, è assoggettata ad una imposta sulle plusvalenze del 26% (la legge di bilancio 2023 ha modificato l’art. 67 del TUIR per introdurre, per l’appunto, una lettera dedicata alle cripto-attività).
Dal punto di vista civilistico, anche se la criptovaluta non ha corso legale, può però essere accettata come mezzo di estinzione delle obbligazioni su base volontaria. Occorre, quindi, un accordo per consentire che l’adempimento di una obbligazione avvenga mediante la corresponsione di criptovalute.
Di quest’ultimo aspetto, cioè delle criptovalute come mezzo di estinzione delle obbligazioni, cioè come modalità alternativa al pagamento tradizionale, si parla relativamente poco a livello mediatico (se ne discute, infatti, quasi esclusivamente tra gli specialisti). Ciò accade perché le oscillazioni di mercato ne hanno enfatizzato l’aspetto speculativo, ma sarà il tempo a dirci se in futuro verrà recuperata la funzione originaria, che, per bitcoin, era quella di fornire una modalità alternativa ai pagamenti con monete tradizionali.
fonte: La Stampa